Pietre, prigioni e razzismo

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Nel cuore del conflitto israelo-palestinese esiste una tragedia nella tragedia che non trova spazio nei grandi media occidentali: circa 500 minori palestinesi sono attualmente detenuti nelle prigioni israeliane, di cui più una buona parte senza accusa né processo, sotto il regime della detenzione amministrativa. Sono ragazzini, spesso poco più che bambini, strappati alle loro case nel cuore della notte, interrogati senza avvocato, rinchiusi in celle condivise con adulti, sottoposti a violenze psicologiche e fisiche.

di Alfonso Minutolo

Molti di questi minori sono incarcerati con un’accusa che può sembrare ridicola per chi guarda da fuori: il lancio di pietre. In Cisgiordania, la legge militare israeliana prevede pene fino a 20 anni di reclusione per chi viene accusato di aver lanciato pietre contro un veicolo o un soldato, anche se nessuno è rimasto ferito. Vent’anni. Il tempo di crescere, diventare adulti, invecchiare dietro le sbarre per un gesto di rabbia o di disperazione, spesso compiuto da un tredicenne che non ha mai conosciuto la libertà.

Un caso emblematico è quello di Ahmad Manasra, arrestato nel 2015 a soli 13 anni. Ferito, insultato mentre giaceva a terra, interrogato senza avvocato, è stato condannato a nove anni e mezzo. In carcere ha sviluppato gravi disturbi psichici a causa dell’isolamento. È stato liberato qualche giorno fa, dopo aver scontato l’intera pena, da solo, in un luogo ignoto alla famiglia. La sua vicenda ha commosso il mondo, ma non ha cambiato nulla nella prassi israeliana.

Questo porta a una riflessione inevitabile: 

Cosa vale di più, una pietra o una bomba?

Mentre il mondo si indigna per gli attacchi ai civili israeliani, raramente si sente condannare con la stessa forza l’uso sistematico della forza da parte di Israele, che risponde con missili ad alto potenziale, bombe che radono al suolo interi quartieri, che colpiscono ospedali, scuole, mercati. Il confronto tra il ragazzino con una pietra in mano e il premier israeliano che ordina operazioni militari con migliaia di vittime civili è spietato. Eppure è il primo a finire davanti a un tribunale militare, mentre il secondo viene accolto con tutti gli onori nelle cancellerie occidentali.

Questa sproporzione, questa asimmetria totale, non è soltanto una questione di ingiustizia: è morale, politica e razziale.

Perché ciò che emerge dal trattamento dei palestinesi e in particolare dei loro bambini è qualcosa di più profondo della semplice oppressione. È un razzismo sistemico, radicale, che non cerca la sottomissione del “diverso”, ma la sua eliminazione. La negazione del diritto all’infanzia, all’identità, all’esistenza.

Israele non tratta i palestinesi come cittadini di serie B. Li tratta come nemici ontologici, da controllare, imprigionare, bombardare e cancellare. È un razzismo che non costruisce muri solo per separare, ma per isolare, per demonizzare, per rendere invisibile l’umanità dell’altro.

E come i nazisti tatuavano numeri sul braccio degli internati nei campi di concentramento, così oggi in Cisgiordania soldati israeliani marcano la pelle dei ragazzini palestinesi con stelle di David incise a penna o incise con oggetti appuntiti, come atto di umiliazione e dominio. È un gesto che va oltre la violenza fisica: è la trasformazione del corpo dell’altro in oggetto marchiato, privato della sua dignità.

E quando la narrazione dominante presenta il bambino con la pietra come un “terrorista in miniatura”, e il leader che ordina la distruzione di Gaza come un “difensore della democrazia”, allora non siamo più di fronte a un conflitto, ma a un progetto di cancellazione. Una vera e propria “soluzione finale”. Un progetto che, pur con forme e contesti diversi, richiama alla mente i momenti più oscuri del Novecento. Perché, come nel nazismo, anche qui il “diverso” non è da convertire o assimilare. È da espellere, ridurre al silenzio, eliminare.

Chi ha a cuore la giustizia non può restare in silenzio. Perché una pietra lanciata da un bambino può ferire, ma un silenzio complice può uccidere milioni di volte.

Articolo donato dall’autore per la ripubblicazione su questo blog

Una risposta a “Pietre, prigioni e razzismo”

  1. Avatar Raffaella
    Raffaella

    E che c’è da commentare? È sotto gli occhi di tutti quello che sta succedendo. Israele che mette in atto il suo storico progetto di sterminio e l’ occidente che appoggia tutto questo. Se non fossi atea, direi: che Dio li fulmini.

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Questo articolo ha un commento

  1. Raffaella

    E che c’è da commentare? È sotto gli occhi di tutti quello che sta succedendo. Israele che mette in atto il suo storico progetto di sterminio e l’ occidente che appoggia tutto questo. Se non fossi atea, direi: che Dio li fulmini.

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